GENESI pentateuco #1

di Chiara Boscaro

drammaturgia e regia di Marco Di Stefano

con Valeria Sara Costantin

musiche di Lorenzo Brufatto

eseguite e registrate dall’ensemble da camera Il canto sospeso

scene di SCANTINATO AKME

traduzioni in Esperanto di Giovanni Daminelli

foto di scena Marco Mosca

progetto grafico e visivo di Mara Boscaro

un progetto La Confraternita del Chianti

una produzione Associazione Interdisciplinare delle Arti

in collaborazione con

Teatro Verdi – Teatro del Buratto e Associazione K.
Dot Spot Media Productions (Bucarest – Romania)

vincitore Premio Teatro… Voce della società giovanile 2017

selezione MIND THE GAP – Nuovo Teatro in Rete /Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi

testo finalista Premio Hystrio 2017-Scritture di scena_35

menzione speciale Premio Sonia Bonacina 2016

finalista Premio Internazionale Il Teatro Nudo di Teresa Pomodoro 2016

si ringraziano Federazione Esperantista Italiana – Circolo Esperantista Milanese, Teatro della Cooperativa

«Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.
[Genesi, 11,6-9]

Nel libro della Genesi è narrata la vicenda della Torre di Babele, ovvero l’esatto momento in cui gli uomini hanno smesso di capirsi e hanno iniziato a scontrarsi. Non avevano più un obiettivo comune. Ma questo ha permesso la nascita di tutte le lingue del mondo. Con le loro ricchezze, con le loro diversità, con il loro portato culturale e simbolico. La nostra “Genesi” è incentrata proprio sulla parola, sul linguaggio. Il primo compito del primo uomo è quello di dare un nome a tutti gli esperimenti del Creatore: gli animali, le piante, gli astri, il sopra, il sotto, il solido e l’invisibile. È un’ambizione puramente umana quella di comprendere tutto e tutti, di capire, di sentirsi parte di un mondo riducibile in particelle che stanno in uno sguardo, in una parola. Chiamare una cosa, darle un nome, significa isolarla da un rumore di fondo indistinto e concederle lo status di identità.

All’episodio di Babele ci ispiriamo, per raccontare l’esperienza di una migrante al suo arrivo in una città “cosmopolita”, dove, se non si parla una lingua comune a tutti, è molto facile restare ai margini. Dove, se non supera un esame di conoscenza della lingua ignota, la migrante potrebbe essere costretta a rinunciare al sogno di una nuova vita. Ma dove è anche possibile trovare un nuovo modo – forse più essenziale – di comunicare con gli altri. L’identità del personaggio è lasciata volutamente celata. Potrebbe essere una donna arrivata in Italia con un barcone, potrebbe essere una donna italiana che decide di trasferirsi in Norvegia per le tutele maggiori, potremmo essere noi.

L’ambizione di questo monologo è quella di indagare l’origine delle parole, l’origine del nome delle cose. Dare un nome alle cose significa circoscrivere il proprio piccolo mondo, il proprio giardino dell’Eden, il proprio posto, le proprie certezze. Dare un nome alle cose significa creare il proprio spazio scenico, il proprio corpo scenico. Dare un nome alle cose significa trovare, frase dopo frase, le parole giuste per questa storia. Parole che abbiamo voluto tradurre in Esperanto, la lingua della fratellanza e della pace, una lingua seconda per tutti. Perché non è la lingua ad essere ostile, ma l’uso che se ne fa.

Rassegna stampa

“Eppure questo corpo di donna che prova a scrivere una storia nuova, che impara sulla scena a confrontarsi con parole non sue, si staglia come portatrice di speranza, come veicolo di futuro e finisce per opporre alla incomunicabilità di lingue confuse l’universalità di parole comuni: sarà madre e in quell’afflato puro che accomuna l’uomo all’uomo, la frontiera si disperde, l’umanità si rigenera.”

(Michele Di Donato, ilpickwick.it)

“Poetica e sbarazzina, la drammaturgia di Chiara Boscaro usa l’Esperanto come codice comunicativo da acquisire. Trovata originale e paradossale. Originale perché ricorda l’utopia pacifista di una lingua per tutti, senza prevaricazioni né nazionalismi. Paradossale perché qui l’Esperanto è discrimine per accedere al nuovo mondo, anziché elemento inclusivo. Misurata e intelligente, la regia di Marco Di Stefano si vale di un gesso, un muro-lavagna, un microfono-megafono, luci come strumenti narrativi.”

(Vincenzo Sardelli, paneacquaculture.net)

“Con una messa in scena essenziale ed evocativa, fatta di squarci di luce che illuminano i passaggi della storia, lo spettacolo stimola interrogativi. È davvero possibile immaginare una lingua universale che non sia espressione di omologazione globalizzata, ma sia comune nella ricchezza delle differenze e nel rispetto delle diversità?”

(Alessio Corini, www.milanofree.it)

“Valeria Sara Costantin regala una recitazione ricca in vitalità.”

(Raffaella Roversi, www.saltinaria.it)

“Ne viene una pièce affascinante, in un’atmosfera che nella sua concretezza mantiene un carattere sospeso acuito dalle musiche di Lorenzo Brufatto. Un progetto già internazionale –o per meglio dire, a propria volta migrante- visto che si avvale della coproduzione di Dot Spot Media Production da Bucarest. Perché se è vero che all’inizio c’è sempre il buio, e che quello nella Babele del mondo è un viaggio necessario, la sintesi la contiene la Genesi: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile.»”

(Chiara Palumbo, www.artapartofculture.net)

“Lo spettacolo è stato scelto per l’originalità dell’aspetto drammaturgico, per l’interesse del tema sociale presentato e per la qualità del lavoro attoriale e performativo.”

(Dalla motivazione del premio Teatro Voce della Società Giovanile) 

Lo spettacolo è stato scelto per l’originalità dell’aspetto drammaturgico, per l’interesse del tema sociale presentato e per la qualità del lavoro attoriale e performativo.”

(Dalla motivazione del premio Teatro Voce della Società Giovanile)

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