di Susanna Miotto, Karakorum Teatro

“Di una città non noti le sette o le settantasette meraviglie,
ma la risposta che dà a una tua domanda.
O la domanda che ti pone costringendoti a rispondere.”
(Calvino, Le città invisibili)

DICHIARAZIONE PRELIMINARE. Dopo anni passati a dire ai miei allievi “Non fate i compiti con Google Translate, è il male!”, oggi ho fatto i compiti con Google Translate. Mi scuso coi catalani per eventuali inesattezze nelle frasi tradotte e con i miei allievi per la mia incoerenza.

CAPITOLO 1 // Le città e il desiderio
IL RIPIEGO

Seduta al gate, in una Malpensa che così vuota non l’ho mai vista, mi chiedo se sono nel posto giusto. Il monitor dice che sì, al gate A20 parte il volo per Barcellona delle 10:05, ma sembro essere l’unica passeggera. Chissà se mi faranno partire davvero o se la compagnia deciderà che non ha senso far partire un aereo per una sola persona, almeno fossi una celebrità… Poi qualcuno arriva, alla spicciolata.
Il gate apre, ci avviciniamo. In quattro minuti siamo tutti imbarcati.
Sull’aereo siamo in quindici.
Vado in Spagna “ai tempi del covid”, il giorno dopo che il decreto ha stabilito che al rientro mi aspetterà una trafila di tamponi, richieste di referti online e moduli da compilare. Da un giorno all’altro sono passata da “Artista fichissima che va a fare un progetto internazionale” a “Ah, beh, è un po’ una pazzia, ma comunque stammi bene eh.”
Continuo a precisare con tutti quelli che me lo chiedono che “Vado per lavoro, non per movida”, forse per sentirmi meglio, meno irresponsabile, meno untrice…
In aereo compilo un’autocertificazione, poi prendo Le Città Invisibili, guida inaspettata in questo viaggio inaspettato.
Faccio in tempo a leggere la frase…
Di una città non noti le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. O la domanda che ti pone costringendoti a rispondere
…che devo mettere via il libro per prepararmi all’atterraggio. Chiudo il libro e mi preparo all’atterraggio. Si atterra facendo una curva sul mare, a Barcellona. Vedo la spuma bianca e delle spiagge bellissime, deserte, che si avvicinano.
Una domanda?
Bah, che cosa radical chic!
Prendo il mio zaino e il mio cinismo e approdo in città.
Eccola, Barcellona. Città che avevo visitato anni fa come ripiego, perché Istanbul costava troppo. Città che mi ha voluta adesso come ripiego, perché l’artista originariamente designata non poteva più andare.
Due ripieghi che si incontrano di nuovo, faccia a faccia, a studiarsi reciprocamente, senza capire bene come siano finiti in quella situazione.
Nell’aeroporto (deserto pure questo) rompo il ghiaccio.
“Hola Barcelona, ¿que tal?” le dico con un gran sorriso “¡Yo aprendì un poco de español!”
Lei mi guarda, senza cambiare espressione.
“No parlo español”.
Ah.
Non si inizia bene.

CAPITOLO 2 // Le città e i nomi
ELS FROMATGES

A Barcellona parlano catalano, e mi ricordo della cosa grazie alla pubblicità di un formaggio che vedo sulla metro verso La Sagrera. Barcelona non è Spagna, è Catalunya, le bandiere catalane sventolano alle finestre e le scritte sui muri ci ricordano i principi di libertad, republica y independencia. Una terra che non si sente parte del resto della nazione, un’isola in mezzo a un mare che non riconosce come simile. L’astio verso Madrid non è qualcosa di sotterraneo, è esibito. E’ scritto sui cartelli, dove la lingua catalana è in grassetto e la traduzione in spagnolo è sotto, in piccolo, come una lingua straniera. E’ nell’architettura megalitica del Teatro Nacional de Catalunya. E’ nella programmazione dei grandi teatri, che attraverso l’arte veicolano le tradizioni e le ambizioni della loro terra.
Io e Barcellona ce ne stiamo di fronte, faccia a faccia, a studiarci ancora.
“You want see somting?”, mi chiede
Non parlano inglese a Barcellona, ma io capisco la loro lingua e loro la mia. A volte ci proviamo, a incontrarci in una lingua franca, ma è molto meglio che ognuno parli nel proprio idioma e, incredibilmente, funziona. Vedo delle cose, trascinata dai miei compagni di viaggio, i Confratelli e il Confratellino. E così entro in città da un’altra porta, condotta da altre persone, e la prima cosa che incontro è la spiaggia, che la scorsa volta non avevo neanche considerato dato che era gennaio e che, a dirla tutta, l’acqua non è mai stato il mio elemento. Si arriva da un vialone che mi ricorda Los Angeles. In che cosa? Non saprei bene. Nel cielo ampio, nelle strade larghe, o forse nei colori che ho visto all’atterraggio, nel marroncino brullo con le macchie verde scuro degli alberi. Perché quando andiamo in un posto cerchiamo disperatamente un altro luogo a cui compararlo?
Credo che sia il principio della cover band.

CAPITOLO 3 // La città continue
IL PRINCIPIO DELLA COVER BAND

“Que es el principio della cover band?”
Ora ti spiego. Se tu, adolescente che ha appena iniziato a suonare, decidi di mettere su un gruppo con alcuni amici e come regola ti dai “Oh, raga, mi raccomando, suoniamo solo cose nostre”, sai che ti stai imbarcando in una grande impresa. Sì, perché i gestori dei locali nove volte su dieci ti chiederanno quanta gente porti e soprattutto se fai cover. La gente vuole sentire quello che già conosce. Il riff di Smoke on the Water. Respiri piano per non far rumore. Ci vediamo da Mario. Vuole poter cantare insieme a te, non fare lo sforzo di interiorizzare una melodia nuova, decifrarla, capirla… Vuole essere rassicurata di non essere in una terra straniera.
Kublai Kan si era accorto che le città di Marco Polo si assomigliavano, come se il passaggio dall’una all’altra non implicasse un viaggio ma uno scambio d’elementi.
Per questo in una città cerchiamo sempre qualcosa che ci ricordi altro, per non sentirci perduti. Perciò cerchiamo la pizza a Sharm el Sheik. Perciò le colline della periferia della città mi ricordano quelle di Hollywood, le piazzette mi ricordano Parigi e il quartiere gotico, per un attimo, mi fa sentire a Bologna.
“Pero tu ets en una Terra Straniera…”
E dai, siamo in Europa in fondo, la vecchia Europa!
“…” Sospira.
Hai ragione. Devo farmi sorprendere dall’inaspettato.

CAPITOLO 4 // La città e la memoria
LE PICCOLE DIFFERENZE

Alla residenza cerco qualcosa da leggere, e trovo la sceneggiatura di Pulp Fiction in spagnolo. Non lo dico alla città, che ora se ne sta indifferente fuori dalla mia finestra. Dopo il discorso sul lasciarsi sorprendere, vado a leggere qualcosa che so praticamente a memoria, di cui ho la sceneggiatura in inglese comprata a… A Los Angeles. Come il film. Ambientato a Los Angeles. A quanto pare questa città vuole insolentemente inserirsi in questo viaggio. Non ne comprendo ancora il motivo, ma lascio che le cose accadano.
“Sabes que es lo màs divertido de Europa? Las pequenas diferencias”, dice Vincent Vega, prima di spiegare a Jules che in Francia un quarto di libbra con formaggio lo chiamano Royale con formaggio.
Ecco! Forse potrei iniziare dalle piccole differenze. Come quando impariamo una lingua straniera, che vogliamo sapere subito come si dicono le parolacce, vado così alla ricerca di qualcosa di particolare, di tipico, di divertente… Forse così potrò farmi sorprendere!
E allora comincio: Jules, sai cosa vendono in spiaggia a Barcellona? Non “coccobello”. Ma “mojito fresh” e “cerveza, beer”. Ti giuro, se ne vanno in giro per la spiaggia con la boccia di rum! E sai come lo chiamano il latte col Nesquik? Colacao! Ed è famosissimo, ne vanno pazzi, lo ordinano pure al bar il latte col Nesquik!
La città mi osserva con uno sguardo di compassione, come se fossi un’adolescente che ha messo per la prima volta il piede fuori di casa.
“Creixer!”, mi dice. “ja has estat aquí! Què recordes?”
Ed è a quel punto che vedo qualcosa che mi è familiare, per la prima volta. Qualcosa che mi riporta al viaggio che avevo già fatto. Il museo delle cere sulla Rambla. Ricordo con orrore il giorno in cui sono entrata, per vedere stanze di re e regine spagnoli di cera dietro una catena.
Quel piccolo indizio però mi basta per sentirmi più padrona del luogo. I punti cardinali ritrovano un senso e ricordo dove si trova il quartiere di Poble Sec, ai piedi della collina di Montjuic. Ricordo che il viale conduce al Passeig de Gracia, dove ci sono le case di Gaudì, Casa Batllò e Casa Milà. Il quartiere gotico è qui vicino, con stradine e piazzette nelle quali sentirsi al sicuro. E il viaggio si trasforma improvvisamente in un ritorno, lo stesso luogo, ma con occhi diversi.

CAPITOLO 5 // La città e gli occhi
MIRA’M

“No sóc el mateix lloc…”
Le città cambiano, ma un viaggiatore occasionale non se ne accorge, a meno che non gli chiudano quel ristorante in cui aveva mangiato così bene… Percepisco la stessa atmosfera familiare, una città simile a me, al mio background, al mio stato d’animo, che non mi dà troppi scossoni emotivi.
“Veus? No sóc Los Angeles! Mira’m!”
E la guardo.
Entro nella Sagrada Familia, quella chiesa che quando vedevo la sua foto nel mio libro di storia dell’arte saltavo la pagina. Mi sembrava un castello di sabbia bagnata. Dentro, però, cambia tutto. Mi sento sperduta, in un mondo pieno di elementi architettonici che mi spiazzano, finché la voce non mi dice che è tutto ispirato alla natura, che quelle non sono colonne, ma alberi di un bosco. Immediatamente mi sento meglio, e vedo le colonne di diversi materiali diventare alberi, coi rami che sostengono il tetto, e le vetrate di tutti i colori, e mi perdo a leggere questa “Bibbia di pietra”. Non sembra di essere in una chiesa, non percepisco nulla di particolarmente spirituale ma, come mi dicono poi i miei compagni di viaggio, ci vuole tempo per queste cose, e la chiesa ha appena iniziato ad esistere.
Continuo a guardare la città.
Lascio che il sole delle sue spiagge mi bruci, che i suoi giardini mi offrano l’ombra di cui ho bisogno “Bello il Parc de la Ciutadella sembra il Central Par…” “MIRA’M!”
La guardo.
Nel parco trovo set fotografici, balli di gruppo all’aperto, una coppia che balla il tango in cima alla fontana, un allenamento di boxe, mostri di pietra tra gli zampilli d’acqua e un elefante che sbuca dagli alberi, un castello che si chiama “Dei tre draghi”…
Guardo la città nelle case di Gaudì, che continuano a sembrarmi delle torte, e mi immagino che dentro ci abiti una strega cattiva che mi metterà in gabbia per ingrassarmi e farmi al forno.
E la guardo nelle vecchie foto conservate nei musei, nelle barche ancorate al porto, nelle funicolari che non si capisce dove vadano, nelle colline che sembrano così vicine ma prova a raggiungerle a piedi e sentirai la fatica… La osservo nel caldo pesante, nella luce che, mi fanno notare, così non è da nessun’altra parte, nel profumo di città di mare, nella temperatura dell’acqua, nella disposizione delle merci nei supermercati (ci sono più scaffali per il brodo che per la pasta) e mi chiedo…
Mi chiede…

Eccola, la domanda. Inaspettatamente, la domanda arriva. La città mi chiede qualcosa. Ora, come dice Calvino, sono costretta a rispondere.

CAPITOLO FINALE // La città e la domanda

La risposta, alla fine, l’ho trovata, ma la città non l’ha sentita, perché alla fine del ragionamento ero già tornata a casa. Imparerò bene lo spagnolo, o meglio, il castigliano (i turisti vengono perdonati se non parlano il catalano) e tornerò a dirgliela. Ci ritroveremo lì, io e la città, faccia faccia, non più come ripieghi ma come scelte, e ne parleremo davanti a un piatto di paella fideua, che sono andata via troppo presto per riuscire ad assaggiare.

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